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Oggi le società di calcio sono delle mere attività commerciali ed è inevitabile che seguano il corso altalenante e bizzoso del mercato finanziario, talvolta legato anche alle paralisi che colgono gli istituti di credito locali.
Oggi, tocca al Vicenza, che i più nostalgici ricordano come Lanerossi (il lanificio proprio di origini vicentine), la squadra che lanciò campionissimi come Paolo Rossi e Roberto Baggio, una società che conta tante presenze in serie A e che oggi rischia di naufragare in serie C.
Ma facciamo un piccolo passo indietro prima di raccontare questa storia di provincia: la crisi del calcio italiano non è un affare da rubricare solo in ambito prettamente sportivo, va abbracciata nelle difficoltà in cui annaspa il nostro sistema, altrimenti non si spiegherebbero i crac recentissimi del Siena (divorato dalle criticità del Monte dei Paschi, che ha ucciso anche il pluriscudettato basket senese Mens Sana, nell’estate 2014) e di tantissime altre realtà calcistiche sparite dalla mappa prof (Ancona, Gallipoli, Varese, Padova, Latina, Lanciano, Trieste e Parma). Nel girone B della serie C prima del Vicenza è sparito il Modena, a campionato in corso. Infatti, un aspetto è essere cancellati in estate durante l’iter delle iscrizioni al campionato perché non ci sono i fondi e un altro a stagione in corso, quando la Figc si fa garante dello spettacolo con tanto di contratto televisivo (per citare quello più corposo): è la cartina di tornasole del fallimento di un sistema, non solo pallonaro.
Anni fa il presidente Carlo Tavecchio giurò che non si sarebbe più arrivati a un caso Parma (siamo nel 2014…), legato alle acrobazie finanziarie di avventurieri con pochi scrupoli, invece nella stagione 2016/17 in serie B abbiamo assistito al clamoroso caso del Latina, fallito a campionato in corso dietro inchieste promosse dalla Procura che avevano coinvolto il presidente, ma mantenuto in vita con procedure fallimentari pilotate fondamentalmente per salvaguardare la regolarità e credibilità del campionato, tutelando la torta dei diritti televisivi già erogati da Sky. In serie C è peggio, i diritti televisivi sono spicci, tant’è che il Modena s’è inabissato nel vortice dei suoi debiti e la sorte che attende oggi lo storico club biancorosso è appesa a un filo.
“Si potrebbe dire che il Parma Calcio è come la Grecia, ma sarebbe sbagliato. È peggio” così disse il cronista Giuseppe Salvaggiulo durante le criticità che investirono il club emiliano. Non è un’iperbole, ma l’esempio all’epoca abbracciato a una sola società, seppure di serie A, fu limitativo, oggi infatti il grottesco panoramica l’intero sistema. Ma torniamo al presente. Il Vicenza, sommerso dai debiti e ‘salvato’ momentaneamente lo scorso 18 dicembre dal solito imprenditore in cerca di pubblicità (o solo testa di legno, vai a capire) legando il suo nome a un club di calcio, tal Sanfilippo (ma poco abituato ai miracoli, a dispetto del nome), ha una voragine debitoria di 580 milioni. La scorsa settimana i giocatori si sono rifiutati di scendere in campo per una insignificante partita di Coppa Italia, inducendo uno sciopero -sostenuto dai tifosi- dopo l’ennesimo ripensamento da parte del patròn (?!) di erogare gli stipendi.
Riflessione: di recente la Banca popolare di Vicenza ha attraversato un momento finanziario nerissimo, che s’è ripercosso a effetto domino nei totem cittadini, come è appunto il calcio, sostenuto come main sponsor nemmeno due stagioni fa (e fino al 2018…). La bolla è esplosa anche nel Veneto felix, è lampante. È proprio di questi giorni del resto il processo a carico dell’ex presidente della Banca popolare di Vicenza Gianni Zonin, che ha polverizzato coi vertici bancari gli investimenti di 120mila azionisti. E quindi ora? Quindi oggi è intervenuta la Procura che ha chiesto il fallimento del club, in seguito alle indagini da parte della polizia tributaria che avrà scovato chissà quali carte interessanti in sede sociale; il tribunale ha accolto la richiesta e ha avviato la procedura fallimentare pilotata (la strada che fu seguita per il Latina lo scorso anno). Obiettivo? Salvaguardare il campionato, ma nelle aste fallimentari che seguiranno per acquisire il club difficilmente apparirà un imprenditore capace di sborsare soldi per poi affrontare l’abisso dei debiti. L’agonia economica di questo Paese non risparmia nemmeno la passione sportiva, mietendo ogni stagione vittime illustri.
Grazie agli ecosistemi digitali creati dall’Internet of Things (IoT – o internet delle cose) sarà possibile far comunicare tra loro oggetti fisici e persone, si potrà predisporre un’ottimizzazione costante del processo produttivo,
si creeranno, non solo Smart Factories (Fabbriche Intelligenti), ma anche Smart Cities, in cui l’ecosistema digitale si estende oltre la singola impresa, verso altre imprese, scuole, università, centri di ricerca, istituzioni e così via, fino a giungere al singolo consumatore, nella veste di prosumer.
Dato questo breve quadro, la domanda che sorge spontanea è: ci sarà ancora spazio per il lavoratore in quanto tale?
John Maynard Keynes, parlando di disoccupazione tecnologica, sosteneva che l’automazione avrebbe progressivamente – in pochi decenni – tolto l’uomo dal mercato del lavoro sostituendolo con macchine più efficienti. Uno dei motivi per cui quanto sostenuto da Keynes non è ancora avvenuto andrebbe rintracciato nel fatto che la sostituzione uomo-macchina porta a una maggiore efficienza dei processi e quindi a una riduzione dei prezzi di vendita: la conseguenza diretta è un aumento del reddito reale (al netto dell’inflazione) che permette l’aumento della domanda di beni e servizi, che va a generare quindi nuova domanda di lavoro, specialmente in nuovi settori, domanda che assorbirebbe i lavoratori resi ridondanti dalla tecnologia. Se la disoccupazione tecnologica era per ora solo una preoccupazione, molti iniziano a temere che da qui a poco si possa realizzare quanto predetto tempo fa da Keynes.
Le tecnologie digitali renderebbero possibile la progressiva sostituzione di una parte non marginale delle occupazioni, anche di livello superiore: si stima che il 47% dei lavori negli Stati Uniti, il 57% nell’area OCSE e il 77% in Cina sia suscettibile di automatizzazione nei prossimi decenni!
Carl Frey evidenzia che le precedenti rivoluzioni industriali hanno portato crescita economica e crescita della produttività, generando al contempo lavori meglio pagati, nuove mansioni e industrie. Per quanto riguarda la produttività, ritiene che con Industry 4.0 accadrà quanto accadde precedentemente, quindi un suo aumento, in particolare nel settore dei servizi. Per quanto riguarda la possibilità di stipendi più elevati e di nuove mansioni, invece, evidenzia che dall’introduzione dei computers lo stipendio mediano è rimasto stagnante, la quota lavoro su quella del capitale è calata, e la partecipazione alla forza lavoro è caduta fortemente, specialmente per alcune professioni: una spiegazione parziale a ciò è che i lavori che vengono automatizzati sono specialmente quelli a salario medio (servizi amministrativi, colletti bianchi, …), creando così un mercato del lavoro sempre più polarizzato. L’innalzamento del livello minimo di competenze richiesto, poi, ha spostato molti lavoratori con media professionalità verso mansioni a basso valore aggiunto, e quindi con un livello di reddito minore rispetto il precedente. Ciò è accompagnato dalla costatazione che negli ultimi anni vi è stata una deindustrializzazione delle economie del G20 – anche a causa dell’offshoring – con un conseguente calo degli occupati nel settore, e dall’evidenza che un numero sempre maggiore di posti di lavoro nei servizi verranno automatizzati.
Tutto questo ha portato quindi ad una “polarizzazione del lavoro”, ovvero al continuo aumento della domanda di lavoratori che si trovano alle due estremità dello spettro delle competenze. Diventa così relativamente più facile trovare lavoro per chi è poco qualificato ma svolge mansioni non routinarie – come quelle nel settore delle costruzioni, dei trasporti e delle manutenzioni ed installazioni – e per i lavoratori high-skilled – come i giuristi, architetti, designer e simili. Ma attenzione, secondo alcuni studi non per tutti gli high-skilled: nel paragrafo precedente ci siamo chiesti quanto le figure con compiti cognitivi e non routinari possano essere al sicuro dall’automazione, e Frey e Osborne elencano in quelle mansioni che saranno sostituite dalle macchine, non solo numerosi lavori manuali, ma anche profili tecnici dell’industria e dei servizi e alcune figure professionali superiori. Rifkin evidenzia come pochissime competenze professionali siano invero oramai al riparo dagli strumenti informatici e dai big data elaborati in algoritmi: «[le tecnologie 4.0] si avvia[no] a liquidare il lavoro salariato di massa nelle industrie manifatturiere e nei servizi, nonché il lavoro professionale retribuito in un’ampia area del settore del sapere». L’automazione quindi “aggredirebbe” anche le mansioni a più alto contenuto professionale.
Quanto detto, in un crescente «revival of automation anxiety», porta a molte domande, rendendo oggi più vivo che mai il dibattito sulle conseguenze dell’automazione del lavoro – dibattito che si pone nella scia dell’ormai secolare discussione che contrappone luddismo e innovazione: i posti che verranno “mangiati” dalle macchine saranno compensati da quelli che si verranno a creare? I lavoratori resi ridondanti dalla tecnologia verranno ricollocati? E se tutto questo non avverrà che politiche dovranno intraprendere gli Stati? E più in generale, che politiche si possono intraprendere a priori per evitare ciò?
Un déjà vu. Peggio, una moda. Salvare le banche. Con un intervento governativo, con tanto di effetto domino o per gli obbligazionisti o per i contribuenti. Insomma, una linea di condotta che affonda l’esempio nella salvezza recente delle due banche venete (Antonveneta e Popolare di Vicenza).
Ancora non si conoscono le nuove strategie per attutire le passività della CariGe, forte banca di origine ligure, colpita da una crisi che è sfociata nei tempi recenti in accuse di truffa ai vertici e soprattutto nella mancata volontà di creare un paracadute da parte delle tre banche del consorzio di pre-garanzia (Deutsche Bank, Credit Suisse e Barclays): la ricapitalizzazione di 560 milioni di euro spetterà ai soci interni, in una scalata da Risiko di dimensioni più ridotte, tra chi comanderà nel futuro imminente e chi invece inevitabilmente verrà estromesso.
Certo, siamo lontani dalla gestione di Giovanni Berneschi, condannato a febbraio 2017 a 8 anni per aver truffato le assicurazioni del gruppo, ma proprio per questo la richiesta della Bce è stata perentoria: aumento del capitale di 560 milioni, richiesta cui s’è fatto fronte vendendo immobili di proprietà (pari a 107 milioni) e convertendo dei bond subordinati, che aveva suscitato l’appetito di alcune compagnie, ma di cui oggi ancora si sa poco nella oggettiva concretezza.
Con lo scioglimento delle Camere per via delle imminenti elezioni politiche in programma il prossimo 4 marzo, la situazione dell’istituto bancario genovese resta nella zona rossa, perché se da una parte l’intervento del governo è fermo all’ordinaria amministrazione (ma sarà così? Ci crediamo?) dall’altra la richiesta delle aspettative Bce (e degli investitori, ma anche dei contribuenti) s’è concentrata in una partita interna. Il vicepresidente della CariGe, Vittorio Malacalza, ha manifestato l’intenzione di accaparrarsi quote maggiori delle attuali.
Anche se poi un’altra soluzione c’è ancora, cioè l’intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi, ma non è questa la strada per il paradiso, perché così si continua a stressare l’intero sistema bancario italiano (fino all’esplosione finale).
In questo scenario non tramonta l’ipotesi di una ricapitalizzazione precauzionale da parte dello Stato, con azzeramento degli azionisti e conversione delle obbligazioni subordinate in azioni. Del resto, come successe 2 anni fa per Mps. Come si noterà il corso e ricorso storico della cronaca bancaria è sempre più recente. E non sempre a lieto fine.
Premesso ciò ci si chiede: quanto il sostegno pubblico di uno Stato e di un’amministrazione attente alle dinamiche dell’innovazione è in grado di intervenire con l’intento di promuovere e sostenere la nascita e la crescita delle imprese innovative? E l’Italia, a riguardo, a che punto è?
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