Eolo: contro lo spopolamento dei piccoli comuni.

    Qualche giorno fa, proprio quando Virginia Raggi esultava perché lo Stato si accollerà un’ulteriore parte dei debiti di Roma Capitale, il sindaco di un paesino in provincia di Lecco annunciava provocatoriamente di voler mettere in vendita parti di pregio del comune da lui amministrato, Esino Lario, per finanziare quanto necessario a contrastare il fenomeno della spopolazione del piccolo comune.

    I comuni sotto i 5mila abitanti rappresentano una grande ricchezza del nostro Paese, ma continuano a spopolarsi in modo preoccupante.

    A questo si aggiunga che da circa dieci anni i governi che si sono succeduti hanno trovato più semplice imporre rigide regole alle amministrazioni locali, riducendo contemporaneamente i trasferimenti statali e negando, di fatto, il principio di corrispondenza tra entrate e uscite, come prevedeva invece la riforma del federalismo fiscale del 2009. Meno introiti fiscali da cittadini residenti, in diminuzione, meno introiti in totale: così, provvedere autonomamente diventa sempre più arduo.

    Un po’ quello che succede alle piccole aziende che, a differenza di quanto accade alle grandi (Alitalia, ad esempio), che non pagano mai, devono fare da sole in un sistema-Paese che rema loro contro.

    Un’iniziativa coraggiosa e intraprendente quella del sindaco lariano Pietro Pensa, ma anche una lezione di responsabilità che dovrebbe essere d’esempio per le realtà amministrative più grandi.

    Un’iniziativa, scopriamo adesso, che rientrava in un interessante progetto di intervento e di sensibilizzazione sul tema dell’abbandono dei piccoli comuni promosso da EOLO, il principale operatore italiano di banda ultralarga wireless. “Lo spopolamento – spiega Luca Spada, presidente e fondatore dell’azienda – è un’emergenza nazionale silenziosa, che crea gravi danni all’economia e alla cultura del nostro Paese”: secondo una ricerca commissionata proprio da EOLO all’Università di Padova-Centro Studi di Community Group, “il 42,3% degli italiani adulti (oltre 21 milioni di persone) è pronto a lasciare il proprio paese alla ricerca di maggiori opportunità economiche e lavorative (83%), servizi di livello europeo per il tempo libero e i consumi (79%) e migliore connettività e accessibilità a internet, importante per il 64,4% degli intervistati (16,3 milioni di adulti)”.
    Così, sottolinea Spada, “da un desiderio di restituzione e vicinanza ai territori dove operiamo come azienda da anni e sui quali osserviamo giorno dopo giorno l’impatto positivo che la banda larga genera concretamente” è nato un progetto di intervento dedicato proprio ai piccoli Comuni, per il quale, rivela Spada, “ho chiesto al sindaco di Esino Lario, Pietro Pensa, di aiutarmi a far discutere del tema, nella speranza che questa provocazione aiuti ad attivare energie positive per salvaguardare l’immenso patrimonio dei piccoli centri”.
    Un’iniziativa “sostenuta sin da subito anche l’Associazione Nazionale Comuni Italiani: il mio augurio è che anche molti altri sindaci, cittadini e istituzioni si uniscano a noi per fare sistema e costruire insieme un futuro migliore con questo progetto che abbiamo voluto chiamare Missione Comune”.

    Con questo progetto, attraverso la piattaforma missionecomune.eolo.it, EOLO offre ai piccoli comuni italiani la possibilità di partecipare alla distribuzione di dispositivi tecnologici e connettività, necessari per trasformare in Smart City anche le piccole realtà.

     


    BPB e BPS: diventare SpA può attendere.

    Due righe della bozza del Programma nazionale di riforma, contenuto nel Def, hanno regalato altro tempo alle due banche popolari che ancora non si sono trasformate in SpA., come invece previsto dalla discussa riforma Renzi-Boschi, approvata nel 2015.

    Il termine per la trasformazione in SpA delle banche popolari con attivi che superano gli 8 miliardi di euro slitta così dal 31 dicembre 2019 (termine già allungato di un anno rispetto alla prima scadenza del 31 dicembre 2018) al 31 dicembre 2020. Gli unici Istituti che superano questa soglia di utili (peraltro assai contestata nel settore, in quanto arbitraria ed esistente solo in Italia) sono Popolare di Bari e Popolare di Sondrio.

    Risulta chiaro, a questo punto, l’intento di attendere che sull’argomento si pronunci la Corte di Giustizia Europea, chiamata dal Consiglio di Stato in merito alla riforma varata dal governo Renzi.

    Il limite imposto, a detta di alcuni esponenti del comparto (Assopopolari), frena le possibili aggregazioni, pure caldeggiate da Banca d’Italia. Per questo motivo, eventuali operazioni in questo senso vengono rimandate, cercando di capire anche se si possa dare vita a modelli diversi, ad esempio holding di banche più eterogenee, in linea con le previsioni della riforma delle Bcc.

    Nell’incertezza derivante da questa ulteriore proroga, l’unico dato –politico- certo è che in questo modo viene superata la “barriera” delle elezioni europee, così che l’attuale governo eviti di prendere decisioni che accelerino la riforma che le banche popolari hanno sempre contrastato.

    Banca Popolare di Bari e Banca Popolare di Sondrio hanno, però, natura ed esigenze diverse tra loro. Mentre l’istituto lombardo riceve le attenzioni di due deputati della Lega, Ugo Parolo e Massimo Sertori, la banca pugliese, come si sa, è alle prese con un difficile piano di ristrutturazione, che non esclude aggregazioni con altri istituti del centro-sud ed è attenzionata sia dalle forze di governo che da quelle di opposizione, considerato che sia PD che Forza Italia hanno esponenti da sempre vicini ai vertici della Popolare di Bari.

    Dovremo attendere ancora, quindi, per capire cosa succederà. Purché, nel frattempo, la Banca Popolare di Bari non finisca in default tecnico.

     


    Disoccupazione in aumento

    L’ISTAT ha rilevato un aumento della disoccupazione nel mese di febbraio 2019, rispetto a gennaio.

    Con una variazione di -0,1 punti percentuale rispetto al mese precedente, il tasso di disoccupazione in Italia si assesta, quindi, al 10,7%. Anche l’occupazione è in calo  di uno 0,1%; e il tasso totale è, pertanto, del 58,6%. Sono diminuite 33.000 unità di lavoratori permanenti e 11.000 di lavoratori a termine. In aumento i lavoratori indipendenti (+30.000 unità).

    Il dato su base annua vede un -1,4% (39.000 unità) di disoccupati.

    Decisamente negativo, invece,  il confronto con il dato minimo pre-crisi, che registrò un 5,8% di disoccupazione ad aprile 2007, contro il 10,7% attuale.

    Quanto poi al tasso di disoccupazione giovanile, (15-24 anni), a febbraio si attesta al 32,8%, registrando uno 0,1% in meno rispetto a gennaio.

    Anche in questo caso emerge il dato preoccupante di quasi 14 punti percentuali in più rispetto al dato minimo pre-crisi, che a febbraio 2007 registrava un 19,4%.

    Anche i dati Eurostat sono sconfortanti : l’Italia si posiziona terza in UE, dopo Grecia (18% a dicembre 2018) e Spagna (13,9%) per il tasso di disoccupazione totale. mentre ha addirittura il secondo tasso più alto di disoccupazione giovanile, dopo il 39,5% della Grecia, a seguire la Spagna con un 32,4%. I Paesi europei a più basso tasso di disoccupazione giovanile sono la Germania (5,6%) e la Repubblica Ceca (6%).

    Questi dati si commentano da soli: il nostro sistema-Paese non è in grado di creare sufficienti posti di lavoro per i suoi Cittadini.

    La storia delle più recenti politiche e delle conseguenti principali riforme del lavoro vede nel 1997 il cosiddetto pacchetto Treu, poi la riforma Biagi (nel 2003), quella Fornero (nel 2012), il jobs act del governo Renzi (nel 2014) fino al recente decreto dignità di fine 2018,

    Una storia che ha visto succedersi obiettivi e provvedimenti normativi assai diversi tra loro. Riforme, tra l’altro, spesso “riformate” con modifiche e interventi correttivi che ne hanno svilito l’essenza fondante. Il risultato di tutti questi tentativi, comunque, è fallimentare, stante i dati appena diramati dall’Istat e da Eurostat.

    Forse sarebbe ora di prendere atto che nessuna politica del lavoro è in grado di “creare” posti di lavoro in un contesto economico in recessione e che ciò di cui ha bisogno il Paese è liberare le energie di coloro che lo abitano e ancora non si sono arresi.

    Per liberare queste energie occorrono semplificazione e certezza delle poche regole necessarie a garantire un corretto funzionamento del sistema generale. Eccesso normativo e di burocrazia sono un ostacolo per le imprese, per la realizzazione di idee e progetti e, quindi, per nuove possibilità di collocamento nel mondo lavorativo.

    Quali dati peggiori attendono i nostri rappresentanti politici per capire la gravità della situazione ed agire conseguentemente?

     


    Carige: offerte entro metà aprile.

    Questo emerge dalle ultime indiscrezioni di stampa e dalle dichiarazioni di Giuseppe Castagna, AD di Banco BPM, rilasciate al quotidiano ligure Il Secolo XIX durante un evento organizzato a Genova dalla banca.

    “Ricordo bene l’incontro, era il 2015. In quel periodo Bpm stava guardando tante cose, ma poi decidemmo di fare un’operazione più rotonda con il Banco Popolare” afferma Giuseppe Castagna secondo cui quella “fu un’occasione di cordiale conoscenza”. E ora Banco BPM potrebbe essere più seriamente interessato al dossier Carige? Nega con decisione Castagna. “Questa volta Banco Bpm non ha nemmeno guardato al dossier aggregazione Carige, non eravamo nelle condizioni per farlo” ha sottolineato. “Anzitutto – continua Castagna – abbiamo bisogno di consolidare l’operazione con il Banco, per la quale abbiamo raddoppiato gli obiettivi rispetto all’accordo iniziale con Bce. Non siamo nella condizione di guardare altre operazioni adesso. E francamente vorremmo tornare a fare utili, a fare bene il nostro mestiere”.

    Secondo Castagna, inoltre, la severità della Bce ostacolerebbe certe operazioni, “perché una vigilanza sempre così in pressing di certo non aiuta”.

    Quanto, infine, all’interesse dei fondi sul dossier Carige e sul “tesoretto” da 3,5 miliardi di crediti deteriorati (v. nostro articolo pubblicato il 5 febbraio scorso su questa stessa testata), in particolare da parte del colosso americano BLACKROCK, Castagna afferma che “tecnicamente il lavoro di AD non cambia ma se sia possibile che un fondo americano controlli una banca commerciale è questione da regolatore europeo e dell’interesse che può avere un fondo a fare attività commerciale”.

    Secondo Lando Maria Sileoni, segretario generale del sindacato Fabi,  «Carige non può essere ripulita per fare una boutique ed essere ceduta a qualche fondo estero. Diverso è il caso di Unipol e Bper, che hanno fatto l’operazione per scongiurare l’attacco di qualche fondo speculativo nei prossimi anni. Siamo contrari alla banca-boutique perché già oggi oltre il 50% del sistema bancario è in mano a fondi stranieri».

    Ricordiamo che, a seguito del commissariamento di inizio anno, per scongiurare un intervento dello Stato, Carige deve trovare un compratore. Come dicevamo, nessuna banca ha manifestato interesse, mentre da più fonti si parla dei fondi e soprattutto di BlackRock appunto. L’interesse di BlackRock sarebbe rivolto in particolare a Banca Cesare Ponti, la private bank dell’istituto di credito genovese (dal 2004 appartenente al Gruppo), che la settimana scorsa ha aperto la prima di una decina di nuove filiali previste entro l’estate e che, in base al piano industriale presentato dai commissari, punta a raccogliere in cinque anni 18 miliardi di masse gestite, dopo averne perse il 30% dal 2014 a oggi.

    Mentre sembra scemato l’interesse di Apollo, rimane in corsa Varde Partners. Le offerte, stando a quanto riferito dall’agenzia Reuters, dovrebbero arrivare entro metà aprile. I potenziali acquirenti dovranno ottenere l’appoggio del primo azionista della banca, la Malacalza Investimenti, che possiede il 27,5%  del pacchetto azionario e che a dicembre votò contro l’aumento di capitale. L’appoggio dei Malacalza è, infatti,  molto importante, per non dire fondamentale, al fine di portare avanti con successo l’aumento di capitale da 630 milioni di euro previsto dall’istituto.


    Banche italiane contro Bruxelles.

    Con una sentenza che certamente avrà molte ripercussioni, il 19 marzo scorso la Corte Europea ha deciso di annullare quanto a suo tempo stabilito dalla Commissione Europea, che nel 2015 aveva giudicato  come aiuto di Stato l’intervento del Fondo Tutela dei depositi  (Fitd) per il salvataggio di Tercas.

    Il piano di salvataggio della banca abruzzese prevedeva, tra l’altro, la vendita della stessa alla Banca Popolare di Bari ed era stato gestito dal FIDT, che è ente (un consorzio, per l’esattezza) di diritto privato. La Commissione UE aveva però considerato che il fondo avesse agito per conto dello Stato italiano e, di conseguenza, aveva intimato di recuperare circa 300 milioni di fondi ritenuti aiuto statale.

    Questa decisione del tribunale europeo avvalora un’interpretazione meno rigida delle regole bancarie del blocco UE sulla gestione delle banche in fallimento.

    La Corte UE spiega che sono emersi vari elementi “che indicano che il FITD ha agito in modo autonomo al momento dell’adozione dell’intervento a favore di Tercas” e che, pertanto, “gli interventi a favore di Tercas hanno una finalità diversa da quella derivante da detto sistema  di garanzia dei depositi in caso di liquidazione coatta amministrativa e non costituiscono l’esecuzione di un mandato pubblico”.

    La decisione della Commissione, oggi ritenuta errata, ha avuto effetti a catena con forti ripercussioni anche sui salvataggi di altri istituti bancari: Banca Etruria, Cari Ferrara, CariChieti, Banca Marche, le banche venete e persino MPS.

    Ora l’ABI vuole chiedere un risarcimento a Bruxelles per l’errore commesso, viste le conseguenze sulle banche e sui risparmiatori  italiani. “La Commissione Europea rimborsi i risparmiatori e le banche concorrenti danneggiate” si legge in un comunicato. “La posizione sbagliata ed ideologica sostenuta ha prodotto danni gravissimi economici e politici all’Italia e all’Europa, per i quali qualcuno dovrà rendere conto”, conferma l’eurodeputato PD Roberto Gualtieri.

    A tal proposito, ricordiamo che il rispetto delle norme UE, dopo la decisione del 2015, aveva portato al decreto “salvabanche” dell’allora governo Renzi, che , ad un costo più elevato di quello previsto dal FIDT, aveva per giunta escluso i risparmiatori sottoscrittori di obbligazioni subordinate. Salvo poi scoprire che centinaia di piccoli risparmiatori erano stati truffati dai manager bancari, nel tentativo di ripianare i buchi di bilancio.

    Questa recente decisione potrebbe avere ripercussioni anche sui salvataggi bancari in corso, tra i quali Banca Carige, per la quale è intervenuto lo schema volontario. In futuro, però, dopo questa sentenza, il FIDT potrebbe intervenire preventivamente su altre situazioni.

    Intanto, il responsabile dell’antitrust europeo, Margrethe Vestager, ha affermato che la Commissione valuterà le conseguenze di questa decisione e ha sottolineato che il caso non va legato ai salvataggi di altre banche italiane.

    Certamente questa decisione del tribunale europeo porterà anche nuove polemiche politiche sui rimborsi ai risparmiatori truffati e il fronte Governo/Bruxelles potrebbe surriscaldarsi.

     


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