Esodo e pazzia

    Lasciare, sapendo che sarà per sempre, la propria casa, magari quella a vita, lasciare il proprio pezzo di terra, il paese dove si è sempre vissuto, gli amici, i parenti, lasciare le tombe dei propri defunti, non è facile.

    Lo è ancora meno se questo abbandono è frutto della paura, delle vessazioni, degli espropri imposti da un regime come quello titino che a dispetto dello slogan “Morte al fascismo, libertà ai popoli” che voleva caratterizzare il movimento da cui quel regime era nato, si è rivelato alla prova dei fatti non come liberatore, bensì, né più né meno, come una forza di occupazione.

    E’ quanto hanno provato sulla propria pelle i 300 mila profughi istriani, fiumani e dalmati che dal 1945 a tutti gli anni Sessanta hanno subito questa sorte. Inevitabili i contraccolpi sulla psiche di molti di essi, con la conseguenza di vedersi costretti al ricovero in manicomio. La struttura che, in questo senso, ha visto transitare più esuli è stato l’ospedale psichiatrico “San Giovanni” di Trieste, per molti anni guidato da Franco Basaglia e nel cui archivio sono raccolti nomi e cartelle cliniche che, oggi, grazie alla messa a disposizione di Giuseppe Dell’Acqua, già direttore del Dipartimento di salute mentale dell’ospedale, sono diventate oggetto di studio da parte della storica Gloria Nemec. Il risultato è un libro di grande interesse umano e sociale dal titolo “Dopo venuti a Trieste” con l’indicativo sottotitolo “Storie di esuli giuliano-dalmati attraverso un manicomio di confine 1945-1970”, pubblicato dalle Edizioni Alphabeta Verlag e uscito in una collana diretta dallo stesso Giuseppe Dell’Acqua, grazie anche alla sponsorizzazione del benemerito “Circolo di cultura istro-veneta Istria” presieduto da Livio Dorigo.

    Il libro, per le storie drammatiche che racconta, per le tante esistenze ferite dall’esperienza dell’esilio, per i percorsi che, di fronte alla malattia, hanno portato molte famiglie alla disgregazione ulteriore, risulta particolarmente interessante e ricco di spunti di riflessione che il taglio storico dato dall’autrice aiuta a sviluppare (Gloria Nemec è docente e ricercatrice di Storia sociale). Perché non c’è solo il trauma dell’esilio che concorre alla malattia. C’è anche quello della vita durissima nel campo profughi, nel caso specifico di quelli triestini: la risiera di San Sabba, di infausta quanto allora di recentissima memoria per essere stato l’unico lager su territorio italiano ad essere utilizzato dai nazifascisti come forno crematorio per un gran numero di prigionieri politici ed ebrei; il Silos del porto; il campo di Opicina e quello di Padriciano. E c’è, naturalmente, il fardello doloroso che gli esuli si portano dietro. Scrive la Nemec: “In questi primi anni dopo il conflitto erano ancora ben leggibili i freschi traumi riportati nel passaggio attraverso tempi di guerra e territori contesi. Le anamnesi, sovente ricostruite attraverso le testimonianze dei congiunti, davano forma a storie di vita di donne gravate da lutti, terrori e sentimenti di colpevolezza. Alcune avevano vissuto scontri armati nella loro abitazione, rastrellamenti casa per casa, scomparse inspiegabili e incomprensibili di parenti. Generalizzata appariva la condizione del lutto, segnata anche da un perdurante dialogo con i morti – modalità femminile allora ‘normalmente’ diffusa di elaborazione – diverse sofferenze si esprimevano con il ‘sentire voci’, talvolta con deliri a sfondo religioso o di tipo demonopatico.”

    Era più o meno una condizione generale dei ricoverati, in particolare donne che, a parte i deliri e le irrequitezze, si rifiutavano di bere e mangiare per paura di essere avvelenate, opponevano “cieca resistenza” all’esame somatico, così come alle “terapie convulsanti per timore di essere uccise”.

    E interessante anche notare quanto contraddittorio fosse il sogno socialista per cui molti avevano combattuto e la realtà fatta di espropri e persecuzioni, di esistenze piegate a condizionamenti, obblighi, punizioni, che, al contrario di quelle metafisiche legate, secondo la propria credenza, al fato o a Dio, discendevano direttamente dalla volontà unilaterale, oligarchica, dittatoriale, di alcuni uomini legati a un partito e per niente affatto quella democratica e popolare dei principi falsamente e ipocritamente ispiratori. Tant’è che, non proprio paradossalmente, la stagione egli arrivi di massa si concretizzò negli anni Cinquanta da parte degli abitanti della zona B, posta sotto il controllo jugoslavo. Gente che ormai aveva vissuto quasi dieci anni sotto il tallone del socialismo reale. A tale riguardo, per restare nel campo degli esuli ricoverati:  “L’osservazione medica nei campi profughi aveva modo di riscontrare che lo stato di salute degli ultimi era peggiore di quello di chi era giunto da qualche tempo. Nei collegi e ricoveri per minori approdavano dall’Istria bambini (notoriamente pericolosi antirivoluzionari e fascisti della prima ora, n.d.r),  gracili, invasi da parassiti, in condizioni pietosissime. Nel Silos, nei centri di raccolta sull’altipiano carsico (Padriciano, Villa Opicina, Prosecco), nei campi profughi cittadini di Campo Marzio e San Sabba, era possibile tenere l’emergenza sanitaria sotto controllo, se si attuava l’allontanamento dei bambini, dei tubercolosi e predisposti, degli anziani in gravi condizioni, degli instabili di mente.”

     


    L'editoria italiana nel novecento.

    Immaginate un uomo che, a parte un romanzo, per altro incompiuto, scritti sparsi, molte lettere e poco altro, non abbia scritto né mai pubblicato nulla, ma la cui personalità e influenza sia stata determinante nella formazione della cultura italiana del Novecento.

    Ebbene, questi era Bobi Bazlen. A raccontare il suo itinerario umano e professionale è la giornalista Cristina Battocletti, vice responsabile della “Domenica” del “Sole 24 Ore”, in un libro interessante quanto appassionato e appassionante “Bobi Bazlen, l’anima di Trieste”, edito da La Nave di Teseo.

    Il migliore, sul piano saggistico, daI punto di vista del racconto, di quanti libri – per quanto pochi -  sono stati scritti su di lui. Perché l’autrice ne fa un ritratto a tutto tondo pescando nei documenti fino a noi pervenuti e nelle testimonianze di chi lo ha conosciuto. Lo fa, peraltro, con quella marcia in più che le dà il fatto di essere prossima, geograficamente e culturalmente, a Trieste per essere nata a Udine. Il che non è secondario per entrare in certi dettagli, anche se la figura di Bazlen, il suo personaggio, non può non suscitare la curiosità di chiunque si muova nel campo delle lettere e della editoria.

    Il suo merito, quello di aver fatto conoscere e tradurre autori e titoli fondamentali, sconosciuti ai più in Italia fino al suo intervento. E parliamo di Sigmund Freud, Franz Kafka, Robert Musil, Carl Gustav Jung e tanti altri, alcuni tradotti da egli stesso. Non solo, un uomo anche al quale si deve l’ideazione e la partecipazione alla fondazione di alcune case editrici tuttora più che attive come la Ubaldini, nel campo della psicanalisi e delle religioni orientali alle quali Bazlen era particolarmente interessato, e soprattutto l’Adelphi, che lo vede compagno fin dai primi passi di Luciano Foà, imbarcando nell’avventura un giovanissimo Roberto Calasso. Né è da trascurare la collaborazione che per anni ebbe con la casa editrice Einaudi.

    Ma questo è un po’, se vogliamo, il suo profilo esterno. Entrare invece nelle pieghe della sua vita, della sua anima, è un’altra cosa, basata com’è su dettagli anche minimi che Cristina Battocletti ha saputo cogliere e raccontare. Così da farci entrare nei suoi rapporti famigliari e sentimentali (uno su tutti quello con Ljuba) e quindi con le tante personalità che Bobi Bazlen ha frequentato anche intimamente come Umberto Saba e sua figlia Linuccia, del quale è stato anche fidanzato, di Svevo, che Bazlen ha contribuito a far conoscere parlandone a Montale che poi ne ha scritto togliendolo dall’anonimato, del suo grande amico Quarantotti Gambini e Giacomo Debenedetti, Adriano Olivetti, Giani Stuparich, senza trascurare l’importante amicizia e scoperta di Stelio Mattioni, con il quale fu in contatto negli ultimi quattro anni di vita.

    Ma, oltre ad essi, anche con i grandi pionieri della psicanalisi in Italia come Edoardo Weiss ed Ernst Bernhard e quindi Cesare Musatti. Cristina Battocletti segue il suo personaggio lungo i luoghi, le case, le persone che ha frequentato, attraverso un racconto avvincente, tanto leggero nella scrittura (si legge d’un fiato a dispetto delle quasi 400 pagine) quanto intenso e profondo e narrativamente sagace, da restituire al lettore un personaggio a tutto tondo, che ben si accosta, seppur con intenti diversi, a quello che Daniele Del Giudice ricercò – proprio sulle orme di Bobi Bazlen – nel suo romanzo “Lo stadio di Wimbledon”.

    Il libro ha per sottotitolo “L’ombra di Trieste” che ha in sé un duplice significato. Il primo riguarda il fatto che Bobi Bazlen è nato a Trieste, nel 1902, da padre tedesco di religione luterana, che perse giovanissimo, e da madre triestina di religione ebrea. A Trieste è cresciuto, respirando l’atmosfera della città, porto principale dell’Impero austroungarico al quale allora apparteneva: un crocevia di razze, religioni e lingue, le quali ultime Bazlen prese a parlare e leggere con la stessa dimestichezza dell’italiano, se non meglio, almeno, il tedesco.

    Deve anche a questo, oltre all’amore per la lettura e i libri, le sue straordinarie scoperte prima di chiunque altro in Italia. Il secondo significato di quel sottotitolo consiste invece nel fatto che, fuggito dal capoluogo giuliano quasi per disintossicarsi, lui figlio unico e orfano di padre, dalle pressanti attenzioni della madre e anche dall’asfissia di un certo ambiente, mai più vi fece ritorno – se non in incognito per due giorni – seppur sempre con la mente e il cuore rivolto lì.

    Cristina Battocletti, Bobi Bazlen- L’ombra di Trieste, La nave di Teseo

     


    Una super Terra con un super nucleo

    Francesca Faedi e Aldo Bonomo, ricercatori dell'Inaf, hanno partecipato alla caratterizzazione di K2-229b, un esopianeta che assomiglia per dimensioni alla Terra, ma è molto più massiccio.

    Tanto da essere avvicinato, per la sua possibile composizione interna, al nostro Mercurio. Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista Nature Astronomy. 

    Come dimensioni è simile alla nostra Terra, ma la sua massa di 2,6 volte più grande suggerisce che la sua struttura sia composta da un nucleo ferroso molto più grande, rendendolo in questo aspetto decisamente simile al pianeta Mercurio. Il suo nome è K2-229b: l’esopianeta è stato caratterizzato da un team di ricercatori guidato da Alexandre Santerne (Laboratorio di Astrofisica di Marsiglia, LAM) e del quale fanno parte Francesca Faedi e Aldo Bonomo, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf), grazie alle osservazioni combinate della missione spaziale Kepler-2 della Nasa e dello spettrografo Harps installato al telescopio da 3,6 metri dell’ESO a La Silla, in Cile. Un pianeta insolito per la sua composizione dunque, ma anche per il periodo orbitale brevissimo - tanto che il suo anno dura meno di un giorno - e la sua temperatura superficiale rovente, di poco superiore ai duemila gradi Celsius. Lo studio di K2-229b può aiutarci a capire la formazione e l’evoluzione dei pianeti rocciosi, non solo nel Sistema solare, ma anche in altri luoghi dell’universo.

    «K2-229b è il primo pianeta ad essere scoperto con dimensione della Terra ma composizione interna simile a quella di Mercurio» ribadisce Bonomo, dell’Inaf di Torino, coautore dell’articolo pubblicato su Nature Astronomy che descrive la scoperta. «È inoltre la prima volta che è stata evidenziata una differenza significativa fra la composizione chimica del pianeta e quella della sua stella e da quest'ultima ci saremmo aspettati una struttura interna del pianeta diversa, analoga a quella della Terra. Non riusciamo al momento a capire bene quale processo abbia portato K2-229b ad avere una composizione simile a Mercurio, sebbene diverse ipotesi siano state avanzate per spiegarla».

    La stella K2-229 è stata osservata tra luglio e settembre del 2016 dal telescopio spaziale Kepler che ha permesso di individuare un sistema con tre pianeti, di cui K2-229b è il più interno e possiede un raggio di 1,16 volte quello della Terra. Le misure di velocità radiale di questa stella condotte con Harps hanno infine permesso di determinarne la massa.

    Questi due dati, combinati insieme, hanno consentito agli scienziati di dare una stima di quella che potrebbe essere la struttura di K2-229b: la più verosimile prevede un nucleo ferroso molto grande, che conterebbe circa il 70 per cento della massa planetaria, e un mantello di silicati relativamente sottile. Una struttura molto simile a quella di Mercurio, il pianeta più interno del nostro Sistema solare.

    L'ipotesi più probabile avanzata dagli scienziati per spiegare la struttura di K2-229b è che gli strati esterni del pianeta siano stati strappati via da un impatto gigantesco, in analogia a quanto si ritiene sia avvenuto alcuni miliardi di anni fa per Mercurio. In alternativa a questo possibile scenario, la struttura interna di K2-229b si potrebbe spiegare ipotizzando la sua formazione in una zona interna del disco protoplanetario con una bassa concentrazione di silicati oppure con l'evaporazione del suo mantello di silicati prodotta dal forte irraggiamento da parte della stella dovuto alla estrema vicinanza del pianeta.

    «Con il lancio della missione Plato dell’Esa, previsto nel 2024, avremo finalmente la possibilità di studiare in dettaglio pianeti come K2-229b che orbitano attorno a stelle brillanti di diversa  massa e composizione chimica» commenta Francesca Faedi, dell’Inaf di Catania, anche lei coautrice dell’articolo su Nature Astronomy. «Grazie a queste osservazioni capiremo meglio i meccanismi di formazione e migrazione planetarie collocando il nostro Sistema solare in un più ampio contesto globale. Plato osserverà stelle molto brillanti garantendo la possibilità di condurre investigazioni dettagliate anche sull’atmosfera e la composizione interna di questi pianeti con lo scopo di identificare un possibile pianeta abitabile analogo della Terra».

    Aldo Bonomo e Francesca Faedi collaborano al programma italiano GAPS (Global Architecture of Planetary Systems) che studia in dettaglio i pianeti extrasolari sfruttando le capacità uniche dello spettrografo HARPS-N montato al Telescopio Nazionale Galileo dell’INAF alle Isole Canarie (Spagna) e alla preparazione scientifica della missione PLATO dell’Agenzia Spaziale Europea, dedicata alla ricerca di esopianeti, finanziata in Italia dall’Agenzia Spaziale Italiana.

    Author :Redazione Media Inaf

     


    Quando il sesso si accompagna alla menzogna.

    La società araba è apparentemente sessuofoba, con gli uomini pronti a giudicare negativamente anche le più innocenti libertà delle donne, quegli stessi uomini che poi, nel loro privato risultano essere ossessionati dal sesso, malati, se solo si pensa che risultano essere i maggiori consumatori di siti pornografici.

    Questa mentalità e il mondo che riproduce emerge con grande forza nel libro, edito da Rizzoli, “I racconti del sesso e della menzogna” della giovane scrittrice marocchina Leila Slimani, vincitrice nel 2016 dell’importante premio Goncourt con il romanzo “Ninna Nanna”.

    Il titolo può apparire fuorviante. Lascia, infatti, pensare a una raccolta di racconti letterari, di pura narrativa, mentre invece sono i racconti degli incontri che la scrittrice ha avuto con diverse donne marocchine in occasione delle varie presentazioni del suo romanzo d’esordio “Nel giardino dell’orco”, un romanzo coraggioso che racconta la storia di Adele, una donna che descrive i suoi rapporti sessuali in maniera fredda, anaffettiva, malata, se volete, che si muove in un mondo ipocrita dove la donna è sottomessa alle “esigenze” degli uomini. Tanto da dimenticare sé stessa. Pur nella analitica descrizione dei coiti non c’è nulla di erotico. Un romanzo d’esordio che fece scalpore.

    Ebbene, proprio i temi trattati da Leila Slimani in quel romanzo, hanno dato il coraggio a molte giovani donne arabe e marocchine in particolare di trovare nella scrittrice qualcuno a cui confessare, sapendo di trovare comprensione, la propria condizione sessuale, ciascuna portatrice di esperienze traumatiche che hanno condizionato e continuano a condizionare la loro vita. Qui la penna della scrittrice si trasforma in quella della giornalista, ché tale anche è Leila Slimani, che dà agli incontri il taglio del report partendo dai diversi dati personali. Le donne sono per età e professione le più diverse: la studentessa, la prostituta, la dottoressa, l’attivista politica, una poliziotta e così via attraverso la cui voce passa uno spaccato sicuramente del rapporto uomo donna nei paesi arabi, ma in cui anche noi italiani di entrambi i sessi ci possiamo riconoscere. Anzi, forse la loro realtà può servire da cartina di tornasole della nostra dove ci crediamo più moderni e disinibiti, ma che ogni giorno viene sconfessata da fatti di cronaca o testimonianze personali e dirette da parte di ciascuno di noi, in famiglia, sul posto di lavoro, nei social.

    Ho detto taglio giornalistico o d’inchiesta del libro, ma sarebbe limitante fermarsi a questa definizione. Da questi racconti infatti c’è un forte dato emotivo che emerge e che dà ad essi una loro peculiarità, una intensità attraverso la quale traspare tutta la sofferenza della donna, di quelle che si sono presentate a Leila per fare della loro confessione anche un segno di protesta. Ma vi traspare anche la sofferenza della scrittrice stessa la quale sottolinea nella prefazione che, tra le tante, per la sua galleria ha scelto quelle le cui storie “Mi hanno sconvolto, commosso, che mi hanno infastidito e a volte indignato”.

    Il risultato è un libro carico di pathos, che è rimasto tale mai venendo meno a informazioni sul mondo, la vita, le leggi arabe, con incursioni nella letteratura, citazioni di altre scrittrici che hanno affrontato l’argomento, l’esempio di altre donne, oltre che del proprio, in particolare i conflitti ad esempio di Leila col padre e per la cieca sudditanza della madre ad assurdi diktat gabbati di ordine morale o religioso o semplicemente sociale. Leila racconta la sua impossibilità, con la scelta della propria indipendenza dalla famiglia, di trovare un appartamento in affitto come single e altri aspetti di vita quotidiana, il tutto attraverso una scrittura rapida, efficace, essenziale che, mescolandosi al racconto delle donne, danno il succo a ogni incontro. Sesso clandestino, rubato, consumato in posti talvolta squallidi e abbandonati se solo fidanzati, che non si possono neppure baciare in pubblico; condanne a due anni di carcere soltanto per aver fatto sesso fuori dal matrimonio; stupri in famiglia e non con divieto di abortire anche se rimaste incinte;  obbligo di illibatezza prima del matrimonio; il ricorso a soluzioni alternative; omosessualità perseguitata; i rimedi della masturbazione; la libertà celata delle confidenze tra donne anche con l’uso tra loro, nascosto, di un linguaggio crudo per reazione; e, insieme, ancora tanti altri aspetti così intimi e delicati che danno senso a quella parola del titolo, menzogna, che circonda certo i rapporti sessuali nel mondo arabo, ma anche il nostro.

     


    TIANGONG-1: L'Iinsuccesso che ha unito il mondo.

    C’era da aspettarselo: Tiangong-1 è caduta nelle vaste immensità di un oceano grande mezzo globo, ovvero il posto più probabile dove avrebbe potuto farlo

    D’altra parte, il mondo, che diciamo sempre essere “piccolo” quando troviamo nostra zia al supermercato, evidentemente tanto piccolo non è per un oggetto lungo dieci metri che deve scegliere dove atterrare in cinquecento milioni di chilometri quadrati.

    Era Tiangong, semmai, ad essere piccola, uno spillo solo un po’ più tozzo in un pagliaio chiamato Terra. Eppure ci ha tenuto col fiato sospeso più di Cassini quando è ruzzolata su Saturno e il motivo è semplice: stavolta si trattava di noi.

    Erano in ballo possibili conseguenze, seppur minime, sulle nostre vite. E Tiangong ci ha forse deluso in questo? No, possiamo dire tranquillamente che delle conseguenze le ha avute, eccome, ma tutt’altro che catastrofiche.

    Pur in questo finale così anonimo, dove i principali siti di tracciamento satellitare davano ognuno la sua versione dei fatti e per un paio d’ore non se ne è saputo nulla, Tiangong-1 ha rappresentato un goffo ed inoffensivo nemico dell’umanità. Una simbolica zanzara che tutto il castello, dal re ai maggiordomi, si è ingegnosamente attrezzato per inseguire e neutralizzare. In quel momento sono cadute le barriere sociali e c’è stato spazio solo per l’obiettivo dell’abbattimento di questa risibile ma fastidiosa minaccia.

    Nel suo piccolo, Tiangong ha quindi rappresentato un banco di prova e di collaborazione tra 15 agenzie spaziali e un’altra infinità di enti che di solito si occupano di produrre, gestire ed affilare le armi. E se al mondo esiste un nobile motivo ed una giustificazione per il proliferare di tanta industria bellica è proprio il fatto che un giorno tutta questa potenza potrebbe servirci all’improvviso e tutta insieme. Mai riusciremo a deviare un pianeta impazzito che ci viene addosso, o un asteroide di cinquanta chilometri di diametro, ma magari con un astro non troppo immenso potremmo riuscirci.

    Ebbene, in quel momento - che speriamo inutilmente non arrivi mai - servirà tutta la collaborazione che il mondo ha messo su Tiangong-1. Anzi, molta di più. Non parliamo poi di tutti gli errori e le mancanze tecniche e tecnologiche che sono emerse e la cui correzione appare inderogabile come ad esempio la probabile insufficienza di stazioni radar a terra in grado di tracciare l’oggetto istante per istante, perché pare lo abbiano fatto i satelliti ma con molte zone d’ombra e di incertezza. È probabilmente ora di fare pulizia non solo in casa ma anche in cortile togliendo di mezzo, ad esempio, un po’ di spazzatura spaziale. Comunque, ora che è tutto finito e la paura è alle spalle, diciamoci la verità: abbiamo sperato che Tiangong, senza farci del male, decidesse di cadere proprio sull’Italia.

    Solo per mostrarsi e farci godere lo spettacolo del fuoco nel cielo, per fotografarlo, filmarlo, legarlo come ricordo ad una particolare fase della nostra vita, sia personale che di “genere umano”. Ora che, come ogni anno, abbiamo scoperto che il biglietto vincente della Lotteria di Capodanno l’ha vinto qualcun altro - ed anzi, fortunatamente stavolta non l’ha vinto proprio nessuno - finalmente possiamo buttarci in poltrona e ripercorrere, come un romanzo, la storia di Tiangong1.

    Author : Paolo Soletta

     


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